La pagina 43 della Guida del 13 aprile scorso, a cura di Apiceuropa (Europa: un patrimonio editoriale fondato sulla carta), densa di informazioni e riflessioni (alcune incoraggianti, specie riguardo ai giovani), mi ha stimolato a riprendere un argomento che mi sta a cuore da molti anni, e mi scuso se non essendo uno specialista del settore editoriale, commetterò qualche inesattezza. Il mio discorso si svolge a livello di interesse e di passione per i libri e la lettura, dai tempi ormai lontanissimi nei quali, a cominciare da abbuffate di Verne e di Salgari (per non parlare della letteratura enciclopedico-naturalistica e poi dei classici) mi sento parte della minoranza dei “forti lettori”, minoranza certo ma con una lunga e illustre tradizione nel nostro Paese, il quale pure come emerge dalla pagina in questione non fa una figura particolarmente brillante nella statistiche dei Paesi europei. In particolare poi, come tutti sappiamo, la rivoluzione digitale ha pesantemente impattato sul libro cartaceo, fino a far pensare alla sua prossima sparizione. Non penso che questo avverrà, almeno per molto tempo, perché esso rimarrà un prodotto a suo modo tecnologicamente “perfetto” e insostituibile per molti usi.
Certo l’editoria ha cercato di intercettare i gusti più vari del pubblico con un’offerta amplissima che più che cercare di guidare ed educare i gusti del pubblico ha tentato – sempre pensando alla sopravvivenza economica – di intercettarli inseguendoli, sfruttando le occasioni offerte dai media, quindi dall’attualità: biografie di personaggi famosi, eventi clamorosi o misteriosi, complotti veri o presunti, fino alla pura e semplice letteratura di consumo, spesso di scarsa qualità dal punto di vista del contenuto, ma ancora più da quello della confezione, già all’acquisto sul punto di sfasciarsi.
Il libro visto non più come qualcosa di raro e prezioso, ma piuttosto come un normale oggetto di consumo del tipo “compra, usa e getta” per cui l’ultima preoccupazione del lettore è quale fine farà, se direttamente nei cassonetti o in un riuso virtuoso negli ormai numerosi posti di deposito e scambio dove ci si può rifornire gratis.
Ma vengo alla questione più particolare che mi ha interessato: nei giorni scorsi. Chiacchierando con alcuni amici lettori seriali come me, ci chiedevamo non tanto “che cosa sarà del libro nel prossimo futuro” quanto “che ne sarà dei nostri libri” dopo che noi non ce ne potremo più occupare. È un fatto che oggi diversamente dal passato in genere nessuno più li vuole, neppure gratis, pubblico o privato che sia. Ci sono molti motivi più che comprensibili: i limiti di spazio, l’enorme e crescente accumulo dei titoli, la qualità discutibile e la necessità di selezioni drastiche che richiedono personale preparato, lo spazio, la possibilità allettante di tecnologie alternative eccetera: ma alla base di tutto, il diverso atteggiamento nei confronti del libro, visto appunto come un normale oggetto di consumo la cui sorte ultima non interessa più di tanto.
Certo, il problema non si pone nel caso di libri aventi un vero valore di mercato come gli incunaboli e le cinquecentine, ma anche molti dei secoli seguenti in edizioni rare e preziose. Qui mi parrebbe strano rifiutare oggetti che equivalgono come valore a lingotti d’oro o sacchetti di preziosi. Ma a parte che non è questo il mio caso, penso che siano proprio questi i libri che si conservano in famiglia ed entrano nell’asse ereditario, custoditi gelosamente in cassaforte, non per leggerli ma per custodirli e collezionarli.
All’estremo opposto, non mi disturba affatto che la maggior parte delle alcune migliaia dei libri che posseggo – non li ho mai contati – finiscano direttamente al macero. Dopo tutto, la loro utilizzazione per la carta riciclata, per dare vita ad altri libri, mi pare ottimale dal punto di vista ecologico ed economico. Dopo tutto, hanno sequestrato per anni una notevole quantità di carbonio sottraendolo al riscaldamento globale, e continueranno a farlo in altra forma, a meno che non li si bruci.
Quello che mi fa invece problema è la sorte di quei forse duecento-trecento libri che possono ancora avere un valore non solo per gli studiosi, ma anche per il lettore comune, in quanto edizioni di classici o di libri di studio particolarmente belle e curate, e difficili da trovare se non proprio introvabili.
A parte le notevoli possibilità offerte dal mercato dell’usato in Internet, non si può pensare – anche in relazione all’ampliamento – trasferimento della Bbiblioteca civica – a una sezione speciale capace di raccogliere le donazioni librarie – certo accuratamente scremate e selezionate da personale preparato e da formare, dei cuneesi che nel corso degli anni hanno accumulato un patrimonio librario non insignificante da punto di vista qualitativo? E il suo centro di gravità non potrebbe essere rappresentato da quell’intersezione tra attenzione al territorio e alle sue trasformazioni – pensiamo ai libri di Nuto Revelli – , alle necessarie attuali transizioni ecologiche e digitali, alla storia locale e insieme di apertura internazionale, che dovrebbero essere tipici di una città di frontiera come Cuneo? Con un tale centro di gravità, catalizzatore e motore, forse la proposta di qualche anno fa, di Cuneo capitale della cultura susciterebbe meno sorrisi e più seria considerazione nazionale e anche internazionale, e le fornirebbe il profilo più riconoscibile che attualmente le manca a differenza di consorelle come Alba. Credo che il problema non sia tanto di risorse – pensiamo alle notevoli valorizzazioni del centro storico negli anni scorsi – quanto di paradigmi e di mentalità più aperta e innovativa.